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#2 La storia di C.

  • Immagine del redattore: la cosa che abbiamo in comune
    la cosa che abbiamo in comune
  • 27 apr 2022
  • Tempo di lettura: 4 min

Ci ho impiegato almeno un anno per ammettere a me stessa di esser stata stuprata.

Per molto tempo ho pensato di essermi inventata tutto, di aver esagerato con i ricordi e l'immaginazione, ho pensato molte volte "magari non ricordo bene, visto che ero molto ubriaca”.

Devo dirlo: non è stato facile accettarlo.

Quel weekend i miei genitori non erano in casa.

Sono uscita con i miei amici a cena, poi ci siamo spostati in discoteca e poi sono tornata a casa.

Ubriaca.

Mia sorella ha invitato un amico a casa e con lui è venuto un altro ragazzo.

Lo conoscevo, non bene. Ma ecco, non era un estraneo.

Una volta rientrata ricordo di esser andata direttamente a letto.

Ero così stanca che alcune parti del mio corpo si erano perfino addormentate prima di raggiungerlo.

Ormai era mattina e desideravo solo dormire, mi sono addirittura infilata sotto le coperte senza svestirmi.

Ho sentito la coperta muoversi, spostarsi e ho capito che nel mio letto non ero sola.

Era lui, sotto le mie lenzuola.

Ero davvero molto ubriaca, la testa non smetteva di girare.

Ma le sue mani me le ricordo.

Mi hanno presa e spogliata con violenza.

Mi hanno spostata e messa sopra di lui, come se fossi un oggetto e non una persona.

Io non lo voglio. Io non lo voglio. Io non lo voglio.

Stringo per buttarlo via. Cerco di respingerlo con le mani ma non ho abbastanza forze per ribellarmi.

La testa mi cade continuamente e tutto continua a girare e a tratti perdo addirittura i sensi.

Ma lo ricordo. Lo ricordo precisamente.

Quel momento in cui provavo a stringere con tutte le mie forze, invano.

Piangevo e provavo a scuotere la testa per dire di no, ma non è servito.

È vero che tutti muoiono e io credo di esser morta in quel momento.

Da quel giorno, ogni giorno della mia vita, apro gli occhi e penso a quanto faccia schifo essere me.

Nel periodo successivo all'accaduto era come se avessi una ferita tra le gambe.

Mi alzavo a stento, trattenevo l’urina per molto tempo e quando arrivava il momento di lavarmi facevo un respiro profondo, aprivo le gambe sul bidet e le mani iniziavano a tremare.

Cercavo di avvicinarle ma succedeva sempre così: le dita mi si addormentavano, iniziavo a non vedere più nulla e svenivo.

Ogni singola volta mi svegliavo con la testa appoggiata al muro o stesa a terra, con la consapevolezza di non averlo superato neanche quel benedetto giorno.

Per molto tempo ho pensato che questo corpo non mi appartenesse, come se quel corpo fosse un posto non familiare, come se mi fossi svegliata in un posto sconosciuto.

Eppure ero nel mio letto.

Eppure ero nel mio corpo.

Ero ero a casa. Una casa che, per molto, non ho sentito più mia.

Poi mi sono resa conto che quel corpo non era estraneo, era mio. Soltanto, era profondamente ferito.

Mi sono guardata allo specchio ogni giorno pensando “sono stata stuprata”.

Ogni giorno.

E poi, molto tempo dopo, non l’ho solo pensato, ma l’ho detto: “sono stata stuprata”.

Le parole sono uscite a bassa voce, poi le ho ripetute più forte, e poi le ho urlate.

Infine, ho pianto in un modo disperato, terrificante.

Volevo morire.

Ci ho pensato innumerevoli volte.

Soffrivo di insonnia, gli incubi mi mangiavano viva, avevo paura di addormentarmi.

Ho scelto.

Ho scelto di tenere questa storia chiusa dentro di me, per via degli altri.

Ho scelto di non parlare per mia sorella, perché so che i sensi di colpa l’avrebbero uccisa.

Ci ho provato a dirle quello che era successo ma non mi ha creduta e, allora, non ho insistito.

Ho scelto di tenere questa storia dentro di me per i miei genitori che durante quel weekend hanno deciso di dedicarsi del tempo con una piccola vacanza.

Ho scelto di non parlare anche per paura, perché ho pensato che anche se avessi denunciato, non sarebbe servito.

Per un po’ non ho dormito nel mio letto, ho fatto cambio con quello di mia sorella.

Con il tempo le mie ferite aperte si sono trasformate in cicatrici che non ho il coraggio di mostrare per il bene di chi mi circonda, per la mia famiglia e forse un po’ anche per me, per la mia piccola anima che ha dovuto sopportare questo dolore e non vuole più guardarlo in faccia.

Di queste cose se ne può parlare fino allo sfinimento ma se non le provi sulla tua pelle non si riesce a capire fino in fondo cosa voglia dire quando qualcuno ti violenta fisicamente.

Te lo porti dentro per sempre.



[ Vanessa e Paola sono le persone che postano queste testimonianze, sono quelle che vi leggono e vi rispondono, che hanno creato uno spazio con la speranza che sia per tutt* un porto sicuro. Hanno scelto di dedicare questo spazio solo alla voce delle vittime, ma oggi era importante spendere due parole in prima persona.

Non possiamo - e non vogliamo - esimerci dal dire che saremo SEMPRE dalla parte delle vittime, sia che decidano di denunciare sia che decidano di non farlo.

Ci preme però dirvi che abbiamo il diritto di urlare le nostre storie, di portarle davanti alla legge, di chiedere giustizia. Denunciare un abuso è il primo passo per far sì che la storia non si ripeta.

Ogni vittima ha il dovere di rispettare se stessa e quello che più crede giusto ( e gli altri hanno il

dovere di comprendere queste decisioni ) ma ricordiamoci anche che abbiamo tutto il diritto di denunciare.

 
 
 

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